mercoledì 13 agosto 2008

Per tracciare l'identikit del Gesuita è anche necessario un salto indietro alla sua storia

Se uno dei compiti della recente 35ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù -tenutasi a Roma dal 7 gennaio al 6 marzo scorso – è stato quello di delineare l'identikit del Gesuita del futuro (cfr. L'identikit del Gesuita: disponibilità e mobilità, in ZENIT.org, 18 marzo 2008), almeno per quanto riguarda l'Italia, utile sarebbere ripercorrere la storia dell'Ordine ignaziano nel nostro Paese, soprattutto durante il c.d. Risorgimento, dato che essa ha conosciuto vari momenti di sofferenza e di grave difficoltà. Tra questi spicca la vera e propria persecuzione subita dai Gesuiti prima, durante e dopo le vicende rivoluzionarie che travagliarono l’Europa e l’Italia nel 1848. Giuseppe Brienza, giornalista pubblicista e corrispondente dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale (www.identitanazionale.it) nel saggio I Gesuiti e la rivoluzione italiana nel 1848 (Solfanelli, Chieti 2007, pp. 64, euro 7) ricostruisce a questo fine, con agilità e precisione, questa delicata fase della vita della Compagnia di Gesù, a partire dagli antefatti della campagna orchestrata contro di essa dal liberalismo ottocentesco, che acutamente aveva ravvisato nei religiosi di sant'Ignazio di Loyola un serio ostacolo alla diffusione del nuovo "verbo" laicista e anticattolico. Fa una certa impressione il fatto, messo adeguatamente in luce da Brienza, che tra i campioni dell’antigesuitismo italiano vi sia stato Vincenzo Gioberti, che pubblicò due opere aspramente ostili verso i religiosi della Compagnia, una volta resosi conto che essi non avrebbero assecondato il suo progetto di federazione italiana. Egli, nell’opera Il gesuita moderno, sostenne che l’antiliberalismo e l’intransigenza dei Gesuiti non avrebbero mai permesso che si affermasse l’accordo fra cristianesimo e modernità. Dunque, alla vigilia del fatidico ’48, i Gesuiti italiani sono nel mirino di tutto lo schieramento liberale: per timore le loro chiese vengono disertate e si comincia a cacciarli dalle loro sedi che, a volte, subiscono veri e propri saccheggi. Dalla Sardegna al Piemonte, dalla Liguria alla Campania, dallo Stato Pontificio alla Sicilia l’attacco nei loro confronti si spande a macchia d’olio: molti sono costretti alla fuga, la Compagnia si disperde e per tanti non rimane che l’esilio. Impossibilitato a garantire l’incolumità dei Padri, lo stesso Pontefice Pio IX nel marzo del 1848 li prega di abbandonare lo Stato della Chiesa. Con questo suo interessante lavoro Brienza scrive un’altra pagina di quella rivisitazione del nostro Risorgimento che ormai da tempo è auspicata e perseguita da studiosi di primo livello.

Maurizio Schoepflin

Per tracciare l'identikit del Gesuita è anche necessario un salto indietro alla sua storia

Se uno dei compiti della recente 35ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù -tenutasi a Roma dal 7 gennaio al 6 marzo scorso – è stato quello di delineare l'identikit del Gesuita del futuro (cfr. L'identikit del Gesuita: disponibilità e mobilità, in ZENIT.org, 18 marzo 2008), almeno per quanto riguarda l'Italia, utile sarebbere ripercorrere la storia dell'Ordine ignaziano nel nostro Paese, soprattutto durante il c.d. Risorgimento, dato che essa ha conosciuto vari momenti di sofferenza e di grave difficoltà. Tra questi spicca la vera e propria persecuzione subita dai Gesuiti prima, durante e dopo le vicende rivoluzionarie che travagliarono l’Europa e l’Italia nel 1848. Giuseppe Brienza, giornalista pubblicista e corrispondente dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale (www.identitanazionale.it) nel saggio I Gesuiti e la rivoluzione italiana nel 1848 (Solfanelli, Chieti 2007, pp. 64, euro 7) ricostruisce a questo fine, con agilità e precisione, questa delicata fase della vita della Compagnia di Gesù, a partire dagli antefatti della campagna orchestrata contro di essa dal liberalismo ottocentesco, che acutamente aveva ravvisato nei religiosi di sant'Ignazio di Loyola un serio ostacolo alla diffusione del nuovo "verbo" laicista e anticattolico. Fa una certa impressione il fatto, messo adeguatamente in luce da Brienza, che tra i campioni dell’antigesuitismo italiano vi sia stato Vincenzo Gioberti, che pubblicò due opere aspramente ostili verso i religiosi della Compagnia, una volta resosi conto che essi non avrebbero assecondato il suo progetto di federazione italiana. Egli, nell’opera Il gesuita moderno, sostenne che l’antiliberalismo e l’intransigenza dei Gesuiti non avrebbero mai permesso che si affermasse l’accordo fra cristianesimo e modernità. Dunque, alla vigilia del fatidico ’48, i Gesuiti italiani sono nel mirino di tutto lo schieramento liberale: per timore le loro chiese vengono disertate e si comincia a cacciarli dalle loro sedi che, a volte, subiscono veri e propri saccheggi. Dalla Sardegna al Piemonte, dalla Liguria alla Campania, dallo Stato Pontificio alla Sicilia l’attacco nei loro confronti si spande a macchia d’olio: molti sono costretti alla fuga, la Compagnia si disperde e per tanti non rimane che l’esilio. Impossibilitato a garantire l’incolumità dei Padri, lo stesso Pontefice Pio IX nel marzo del 1848 li prega di abbandonare lo Stato della Chiesa. Con questo suo interessante lavoro Brienza scrive un’altra pagina di quella rivisitazione del nostro Risorgimento che ormai da tempo è auspicata e perseguita da studiosi di primo livello.

Maurizio Schoepflin

martedì 15 luglio 2008

RECENSIONE di Bruno Pampaloni (Il Foglio, 15/07/2008)

Nella sola Roma più di mille ecclesiastici e tredicimila secolari fuggirono dalla città, mentre altri preti venivano massacrati, molti conventi furono occupati e decine di chiese profanate, senza contare i beni ecclesiastici espropriati dal governo repubblicano. I moti antireligiosi del 1848 videro in tutta Italia una tragica "caccia al clericale" di cui i gesuiti furono le vittime principali.
"L'astio verso la Compagnia di Gesù fu più forte di quello manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia, ed ebbe inizio proprio nel sabaudo Regno di Sardegna" scrive Brienza.
Nel febbraio di quell'anno, la Compagnia fu obbligata a fuggire da Sassari e da Cagliari. Nel marzo fu la volta di Genova, dove gruppi di rivoluzionari assalirono la casa dei gesuiti, devastarono il collegio di Palazzo Doria Tursi e saccheggiarono la chiesa di Sant'Ambrogio, tenuta dalla Compagnia. Episodi simili accaddero a Torino, Chambéry, Novara, Aosta, Chieri, Voghera, raggiunsero il Lombardo Veneto e toccarono il meridione e il centro dell'Italia: Napoli, Sorrento, Salerno e, appunto, lo stato Pontificio, dove Pio IX — incapace di garantirne l'incolumità — invitò la Compagnia ad abbandonare in fretta e furia il territorio papalino. I professori del Collegio Romano emigrarono così in Belgio, in Inghilterra, perfino negli Stati Uniti. In Sicilia la situazione apparve altrettanto critica.
A soffiare sul fuoco ci aveva pensato l'opuscolo "Della nazionalità" (1846) del gesuita padre Luigi Taparelli d'Azeglio (1793-1862). In quello scritto l'autore sosteneva come il principio di nazionalità non s'accompagnasse necessariamente con quello di indipendenza, "sebbene ragioni di politica utilità" avrebbero sempre evitato che una nazione fosse "ligia a una potenza stranera". Non era certo nelle intenzioni di Taparelli affermare che un popolo soggetto non dovesse aspirare all'indipendenza. Egli però vedeva nel diritto e non nella nazionalità il moto primo nella vita dei popoli. Ma tanto bastò affinché il gesuita e i suoi confratelli fossero accusati di "ipocrisia per essersi presentati come patrioti non essendolo" e che Vincenzo Gioberti si scagliasse contro di loro con il pamphlet "Il gesuita moderno" (1847).
Il pensatore neoguelfo, d'altra parte, già da tempo era convinto che i gesuiti fossero "uno dei principali ostacoli al riscatto d'Italia".
In questa temperie culturale, dunque, anche in Sicilia la persecuzione prese di mira i gesuiti. Lo stesso Taparelli, dopo essere stato arrestato a Palermo (aprile 1849), si rifugiò a Marsiglia. Eppure, proprio lui e il confratello Giuseppe Romano avevano appoggiato la rivoluzione siciliana, iniziata nel gennaio del 1848. Nel nuovo regime costituzionale, infatti, essi avevano colto "un sistema migliore del vecchio regime regalistico-borbonico". Non solo. I due gesuiti avevano vagheggiato una libertà siciliana modellata su quella degli Stati Uniti, che contemplasse la pratica di tutte le religioni e senza il prevalere di una sulle altre. Fu loro fatale l'ambizione di sottrarre la rivoluzione alla logica del liberalismo nazionalistico per ricondurla sui binari costituzionali e del diritto naturale. Se, dunque, i fatti siciliani illustrano molto bene lo scontro (non solo) intellettuale dell'epoca, va tuttavia rilevato come le maggiori "attenzioni" dei leader rivoluzionari fossero indirizzate alla Roma di Pio IX che, nel "processo di costruzione di un'Italia laicista e risorgimentale", costituiva il maggior ostacolo da abbattere. Nel tentativo di edificare una società senza religione soprannaturale né Chiesa, le squadre d'assalto della Compagnia, con la loro "strutturazione centralistica, militaresca e rigorosa" e specialmente con "il quarto voto di servire in modo speciale il Papa" rappresentavano davvero l'avversario più temibile.

Bruno Pampaloni

© Il Foglio, martedì 15 luglio 2008, p. 3


Giuseppe Brienza
I GESUITI E LA RIVOLUZIONEITALIANA NEL 1848
Solfanelli, 64 pp. euro 7

RECENSIONE di Bruno Pampaloni (Il Foglio, 15/07/2008)

Nella sola Roma più di mille ecclesiastici e tredicimila secolari fuggirono dalla città, mentre altri preti venivano massacrati, molti conventi furono occupati e decine di chiese profanate, senza contare i beni ecclesiastici espropriati dal governo repubblicano. I moti antireligiosi del 1848 videro in tutta Italia una tragica "caccia al clericale" di cui i gesuiti furono le vittime principali.
"L'astio verso la Compagnia di Gesù fu più forte di quello manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia, ed ebbe inizio proprio nel sabaudo Regno di Sardegna" scrive Brienza.
Nel febbraio di quell'anno, la Compagnia fu obbligata a fuggire da Sassari e da Cagliari. Nel marzo fu la volta di Genova, dove gruppi di rivoluzionari assalirono la casa dei gesuiti, devastarono il collegio di Palazzo Doria Tursi e saccheggiarono la chiesa di Sant'Ambrogio, tenuta dalla Compagnia. Episodi simili accaddero a Torino, Chambéry, Novara, Aosta, Chieri, Voghera, raggiunsero il Lombardo Veneto e toccarono il meridione e il centro dell'Italia: Napoli, Sorrento, Salerno e, appunto, lo stato Pontificio, dove Pio IX — incapace di garantirne l'incolumità — invitò la Compagnia ad abbandonare in fretta e furia il territorio papalino. I professori del Collegio Romano emigrarono così in Belgio, in Inghilterra, perfino negli Stati Uniti. In Sicilia la situazione apparve altrettanto critica.
A soffiare sul fuoco ci aveva pensato l'opuscolo "Della nazionalità" (1846) del gesuita padre Luigi Taparelli d'Azeglio (1793-1862). In quello scritto l'autore sosteneva come il principio di nazionalità non s'accompagnasse necessariamente con quello di indipendenza, "sebbene ragioni di politica utilità" avrebbero sempre evitato che una nazione fosse "ligia a una potenza stranera". Non era certo nelle intenzioni di Taparelli affermare che un popolo soggetto non dovesse aspirare all'indipendenza. Egli però vedeva nel diritto e non nella nazionalità il moto primo nella vita dei popoli. Ma tanto bastò affinché il gesuita e i suoi confratelli fossero accusati di "ipocrisia per essersi presentati come patrioti non essendolo" e che Vincenzo Gioberti si scagliasse contro di loro con il pamphlet "Il gesuita moderno" (1847).
Il pensatore neoguelfo, d'altra parte, già da tempo era convinto che i gesuiti fossero "uno dei principali ostacoli al riscatto d'Italia".
In questa temperie culturale, dunque, anche in Sicilia la persecuzione prese di mira i gesuiti. Lo stesso Taparelli, dopo essere stato arrestato a Palermo (aprile 1849), si rifugiò a Marsiglia. Eppure, proprio lui e il confratello Giuseppe Romano avevano appoggiato la rivoluzione siciliana, iniziata nel gennaio del 1848. Nel nuovo regime costituzionale, infatti, essi avevano colto "un sistema migliore del vecchio regime regalistico-borbonico". Non solo. I due gesuiti avevano vagheggiato una libertà siciliana modellata su quella degli Stati Uniti, che contemplasse la pratica di tutte le religioni e senza il prevalere di una sulle altre. Fu loro fatale l'ambizione di sottrarre la rivoluzione alla logica del liberalismo nazionalistico per ricondurla sui binari costituzionali e del diritto naturale. Se, dunque, i fatti siciliani illustrano molto bene lo scontro (non solo) intellettuale dell'epoca, va tuttavia rilevato come le maggiori "attenzioni" dei leader rivoluzionari fossero indirizzate alla Roma di Pio IX che, nel "processo di costruzione di un'Italia laicista e risorgimentale", costituiva il maggior ostacolo da abbattere. Nel tentativo di edificare una società senza religione soprannaturale né Chiesa, le squadre d'assalto della Compagnia, con la loro "strutturazione centralistica, militaresca e rigorosa" e specialmente con "il quarto voto di servire in modo speciale il Papa" rappresentavano davvero l'avversario più temibile.

Bruno Pampaloni

© Il Foglio, martedì 15 luglio 2008, p. 3


Giuseppe Brienza
I GESUITI E LA RIVOLUZIONE ITALIANA NEL 1848
Solfanelli, 64 pp. euro 7

martedì 24 giugno 2008

PICCOLA STORIA DEL LIBANO: recensione di Cristina Contilli

Benigno Roberto Mauriello, docente di storia militare presso l’Università Europea di Roma, ricostruisce nel volume Piccola storia del Libano le complesse vicende di questo paese dall’inizio dell’800 fino al 1970.
Il Libano, come entità territoriale con una sua precisa connotazione, nasce dopo la prima guerra mondiale, quando cade l’impero ottomano e il territorio libanese finisce sotto il controllo della Francia, in base ad una serie di complessi accordi diplomatici tra Francia ed Inghilterra, per la spartizione del medio oriente.
Il biennio decisivo è quello 1924-1926, nel 1924 si forma, infatti, lo stato della Siria e, due anni dopo, la Francia concede una notevole autonomia al Libano, venendo incontro alle richieste delle popolazioni cristiano-maronite, che risiedevano in quella zona fin dall’epoca delle crociate. La difficoltà nello stabilire i confini tra Siria e Libano, ma anche la complessa ed instabile convivenza di mussulmani e cristiani all’interno del territorio libanese è, secondo Mauriello, all’origine della futura instabilità del Libano, che raggiungerà solo nel 1970 la piena indipendenza dalla Francia.
Il libro è diviso in quattro capitoli: 1) il crollo dell’impero ottomano, 2) l’assegnazione del mandato sul Libano alla Francia, 3) gli anni del mandato, 4) il traguardo dell’indipendenza; ed affronta sia la situazione politico-militare sia quella religiosa ed etnica del Libano nell’arco di un secolo.

Cristina Contilli

http://www.literary.it/dati/literary/contilli/piccola_storia_del_libano.html

martedì 13 maggio 2008

Novità editoriale: PICCOLA STORIA DEL LIBANO

Il territorio libanese, insanguinato da decenni di guerra civile, ancora oggi vive una situazione di estrema instabilità.
Il Libano contemporaneo nacque dopo la prima guerra mondiale quando la Francia, potenza mandataria della zona, diede risposta alle legittime richieste di indipendenza da parte delle popolazioni cristiano-maronite che rivendicavano il diritto di uno stato proprio, distinto e separato dalla Siria a maggioranza arabo-islamica. Ma i confini del paese vennero ampliati a spese della Siria: l’annessione al territorio maronita di vaste zone abitate in prevalenza da musulmani fu decisione giacobina che portò instabilità e creò le premesse per i futuri conflitti. L’ostilità dei musulmani nei confronti dei maroniti costituisce la causa remota del fallimento del modello libanese e sottolinea ancora una volta la difficoltà della convivenza fra cristiani e islamici.
Il conseguimento dell’indipendenza nel 1946, fu accompagnato da un equilibrio precario, frutto di difficili compromessi fra le componenti etniche e religiose del paese, ma generò anche un livello di benessere diffuso, impensabile per i paesi islamici vicini.


Benigno Roberto Mauriello
PICCOLA STORIA DEL LIBANO
Dal mandato francese all’indipendenza

Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-32-4]
Pagg. 80 - € 7,50

http://www.edizionisolfanelli.it/storiadellibano.htm

domenica 11 maggio 2008

Recensione su La Civiltà Cattolita (n. 3783, 2008)

Giornalista pubblicista e dottorando di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, l’A. proviene da una formazione storica, sviluppata soprattutto nell’ambito dell’insegnamento di “Storia moderna e contemporanea della Chiesa e delle altre confessioni cristiane”. Attualmente è cultore di Storia del Cristianesimo nella facoltà di Scienza storiche dell’Università Europea di Roma, nonché corrispondente dell’Istituto dell’Insorgenza e dell’Identità Nazionale (ISIIN) di Milano.
In questo agile volumetto il Brienza si occupa di una fase delicatissima della storia italiana, il 1848, prestando una particolare attenzione agli eventi che interessano i Gesuiti.
Ricordiamo brevemente i fatti riproposti dall’A. La Compagnia di Gesù, all’epoca l’ordine più fiorente di tutta la Chiesa cattolica, viene soppressa nel 1773 da papa Clemente XIV (1769-1774), dietro la pressione delle potenze e diplomazie liberali, protestanti e filomassoniche del tempo. Riabilitati nel 1814, da subito e con un ritmo impressionante i Gesuiti riprendono a crescere. Ecco alcuni dati forniti dall’A. Al tempo della soppressione erano circa 24.000 sparsi in 271 missioni e 600 collegi. Al tempo della riabilitazione del 1814 sono ormai ridotti a circa 600 in totale, di cui 200 in Italia. Ed ecco la crescita, con i dati riferiti solo all’Italia: nel 1820 sono già 316 (su 1.300 totali), 525 nel 1825, 700 nel 1831. Così, alle soglie del Risorgimento, eccoli di nuovo pronti a difendere il Papa, l’ortodossia, i diritti della Chiesa.
È proprio questa inarrestabile crescita nei numeri e nel potere che, secondo l’A., comincia a preoccupare i teorici del Risorgimento italiano. Di qui la reazione del movimento rivoluzionario il quale: «– al fine di eliminare ogni ostacolo ad un’unificazione italiana che intendeva cancellare, assieme allo Stato pontificio, anche la fisionomia cattolica del nostro paese – non poteva non suscitare di nuovo una persecuzione contro i Gesuiti, che apparivano il principale baluardo della tradizione cattolica nazionale» (p. 10).
Preludio alla campagna antigesuitica italiana è la rivoluzione svizzera del 1847, con la vittoria dei radicali sui cantoni cattolici e la conseguente espulsione dei religiosi – con particolare riferimento ai Gesuiti – da tutta la Svizzera. D’altra parte l’antigesuitismo, parte fondamentale del laicismo in rapida espansione nel periodo, è presente un po’ in tutta Europa. In realtà il vero bersaglio rimane l’Ancien régime il quale, però, era profondamente impregnato di influenze cristiane: e allora, attaccare la Chiesa diventa sinonimo di lotta all’Ancien régime.
Tornando all’Italia, l’antigesuitismo trova il suo massimo esponente in V. Gioberti (1801-1852), filosofo e uomo politico torinese, che pure inizialmente aveva cercato di guadagnare i Gesuiti al suo progetto di federazione italiana. La sua successiva svolta antigesuitica si concretizza in un’opera famosa: Il gesuita moderno che, ovviamente, gli mette contro anche quei Gesuiti che inizialmente lo avevano appoggiato. Fra tutti è da ricordare Carlo Maria Curci (1809-1891), primo direttore de La Civiltà Cattolica, periodico che proprio in quel periodo viene concepito, anche se poi comincerà ad apparire solo nel 1850.
In definitiva, alla vigilia del ’48 i Gesuiti sono già il principale bersaglio di tutte le forze liberali nei vari stati della penisola. Con il diffondersi della rivoluzione vengono isolati e cacciati un po’ ovunque. In proposito l’A. si sofferma su alcuni casi particolari che fanno comprendere bene la situazione del periodo.
Il piccolo testo è interessante. Si possono ricordare o apprendere ex novo fatti che solitamente non vengono rimarcati nelle ricostruzioni storiche relative a quel periodo, soprattutto su un tema così particolare come quello di una Congregazione religiosa. In tal senso la ricostruzione dell’A., breve ma minuziosa e documentata, fa giustizia di tanti giudizi approssimativi, veri e propri pre-giudizi negativi nei confronti dei Gesuiti.
Così posta, potrebbe apparire una semplice presa di posizione apologetica: in realtà è una vera ricostruzione storica. Se non abbiamo frainteso il pensiero di fondo dell’A., forse si potrebbe dire che l’azione dei Gesuiti si fa politica solo quando l’azione laica si fa anticlericale. Se così fosse, e così a noi sembra sulla base della storia e non solo di quella riproposta dall’A., perché meravigliarsene? In questi termini, in fondo, la Compagnia di Gesù non fa altro che dimostrarsi fedele al suo fondatore – Ignazio di Loyola (1491-1556) – o, più precisamente, alla Chiesa di Dio.

Giuseppe Esposito
@ La Civiltà Cattolica 2008
Quaderno 3783, febbraio 2008

http://digilander.libero.it/Esposito_Consiglio/G._Brienza:_Recensione_di_Giuseppe_Esposito.html

Recensione su La Civiltà Cattolita (n. 3783, 2008)

Giornalista pubblicista e dottorando di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, l’A. proviene da una formazione storica, sviluppata soprattutto nell’ambito dell’insegnamento di “Storia moderna e contemporanea della Chiesa e delle altre confessioni cristiane”. Attualmente è cultore di Storia del Cristianesimo nella facoltà di Scienza storiche dell’Università Europea di Roma, nonché corrispondente dell’Istituto dell’Insorgenza e dell’Identità Nazionale (ISIIN) di Milano.
In questo agile volumetto il Brienza si occupa di una fase delicatissima della storia italiana, il 1848, prestando una particolare attenzione agli eventi che interessano i Gesuiti.
Ricordiamo brevemente i fatti riproposti dall’A. La Compagnia di Gesù, all’epoca l’ordine più fiorente di tutta la Chiesa cattolica, viene soppressa nel 1773 da papa Clemente XIV (1769-1774), dietro la pressione delle potenze e diplomazie liberali, protestanti e filomassoniche del tempo. Riabilitati nel 1814, da subito e con un ritmo impressionante i Gesuiti riprendono a crescere. Ecco alcuni dati forniti dall’A. Al tempo della soppressione erano circa 24.000 sparsi in 271 missioni e 600 collegi. Al tempo della riabilitazione del 1814 sono ormai ridotti a circa 600 in totale, di cui 200 in Italia. Ed ecco la crescita, con i dati riferiti solo all’Italia: nel 1820 sono già 316 (su 1.300 totali), 525 nel 1825, 700 nel 1831. Così, alle soglie del Risorgimento, eccoli di nuovo pronti a difendere il Papa, l’ortodossia, i diritti della Chiesa.
È proprio questa inarrestabile crescita nei numeri e nel potere che, secondo l’A., comincia a preoccupare i teorici del Risorgimento italiano. Di qui la reazione del movimento rivoluzionario il quale: «– al fine di eliminare ogni ostacolo ad un’unificazione italiana che intendeva cancellare, assieme allo Stato pontificio, anche la fisionomia cattolica del nostro paese – non poteva non suscitare di nuovo una persecuzione contro i Gesuiti, che apparivano il principale baluardo della tradizione cattolica nazionale» (p. 10).
Preludio alla campagna antigesuitica italiana è la rivoluzione svizzera del 1847, con la vittoria dei radicali sui cantoni cattolici e la conseguente espulsione dei religiosi – con particolare riferimento ai Gesuiti – da tutta la Svizzera. D’altra parte l’antigesuitismo, parte fondamentale del laicismo in rapida espansione nel periodo, è presente un po’ in tutta Europa. In realtà il vero bersaglio rimane l’Ancien régime il quale, però, era profondamente impregnato di influenze cristiane: e allora, attaccare la Chiesa diventa sinonimo di lotta all’Ancien régime.
Tornando all’Italia, l’antigesuitismo trova il suo massimo esponente in V. Gioberti (1801-1852), filosofo e uomo politico torinese, che pure inizialmente aveva cercato di guadagnare i Gesuiti al suo progetto di federazione italiana. La sua successiva svolta antigesuitica si concretizza in un’opera famosa: Il gesuita moderno che, ovviamente, gli mette contro anche quei Gesuiti che inizialmente lo avevano appoggiato. Fra tutti è da ricordare Carlo Maria Curci (1809-1891), primo direttore de La Civiltà Cattolica, periodico che proprio in quel periodo viene concepito, anche se poi comincerà ad apparire solo nel 1850.
In definitiva, alla vigilia del ’48 i Gesuiti sono già il principale bersaglio di tutte le forze liberali nei vari stati della penisola. Con il diffondersi della rivoluzione vengono isolati e cacciati un po’ ovunque. In proposito l’A. si sofferma su alcuni casi particolari che fanno comprendere bene la situazione del periodo.
Il piccolo testo è interessante. Si possono ricordare o apprendere ex novo fatti che solitamente non vengono rimarcati nelle ricostruzioni storiche relative a quel periodo, soprattutto su un tema così particolare come quello di una Congregazione religiosa. In tal senso la ricostruzione dell’A., breve ma minuziosa e documentata, fa giustizia di tanti giudizi approssimativi, veri e propri pre-giudizi negativi nei confronti dei Gesuiti.
Così posta, potrebbe apparire una semplice presa di posizione apologetica: in realtà è una vera ricostruzione storica. Se non abbiamo frainteso il pensiero di fondo dell’A., forse si potrebbe dire che l’azione dei Gesuiti si fa politica solo quando l’azione laica si fa anticlericale. Se così fosse, e così a noi sembra sulla base della storia e non solo di quella riproposta dall’A., perché meravigliarsene? In questi termini, in fondo, la Compagnia di Gesù non fa altro che dimostrarsi fedele al suo fondatore – Ignazio di Loyola (1491-1556) – o, più precisamente, alla Chiesa di Dio.

Giuseppe Esposito
@ La Civiltà Cattolica 2008
Quaderno 3783, febbraio 2008

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venerdì 9 maggio 2008

1848, caccia al gesuita

Successe un Quarantotto
Pestati, costretti a scappare con quattro stracci addosso, ricoperti di ingiurie. Fu una vera «caccia al gesuita» quella scatenatasi nel fatidico 1848.
«L’astio contro la Compagnia di Gesù fu quello più forte manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia». Ne è convinto Giuseppe Brienza nel saggio I gesuiti e la rivoluzione nel 1848, un agile e documentato volumetto che rispolvera una pagina poco conosciuta della nostra storia pre-unitaria. Sin dall’arrivo di Ignazio di Loyola a Roma nel 1538 i gesuiti – ottenuta l’approvazione pontificia dell’ordine – si distinsero da subito come una «squadra d’assalto» al servizio della Santa Sede. Con quel quarto voto aggiunto di servire in modo speciale il Papa, la Compagnia durante il Risorgimento finì nel mirino di quelle forze rivoluzionarie che per ottenere l’unificazione volevano cancellare lo Stato pontificio e la tradizione cattolica della Penisola. Già nel 1773 una campagna calunniosa di alcune potenze e diplomazie liberali, protestanti e filo-massoniche, aveva indotto papa Clemente XIV a sopprimere l’ordine. Una decisione che il Pontefice si rimprovererà poi per tutta la vita.
Tuttavia la Compagnia, rinata nel 1814, conobbe una fioritura inarrestabile fino al 1848. Ma la massoneria, che dall’inizio dell’Ottocento aveva mostrato sempre più aperta ostilità verso il cattolicesimo, alimentò in buona parte dei circoli borghesi e intellettuali europei l’immagine dei gesuiti come figure oscure, chiuse, avide, ambigue e senza patria. L’ordine veniva altresì visto come il principale sostegno al rinnovato legame tra trono e altare sancito dalla Restaurazione. E a dar man forte all’antigesuitismo del XIX secolo ci pensò perfino Vincenzo Gioberti. Già, proprio lui, che nell’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) si era fatto promotore del neoguelfismo, auspicando per l’Italia una confederazione di Stati presieduta dal Papa. Il suo apporto alla persecuzione anti-gesuita in Italia viene definito «decisivo» nel libro
Di certo l’abate torinese non fu tenero nei confronti della Compagnia. Prima con i Prolegomeni al Primato (1845) e poi con i cinque prolissi volumi de Il gesuita moderno (1847), Gioberti bollò il gesuitismo come «uno dei principali ostacoli al riscatto d’Italia». Più tardi l’abate chiarirà che attaccava nei gesuiti quanti si opponevano alla sua concezione eterodossa del cristianesimo, per qualcuno molto vicina al panteismo. Sta di fatto che le sue critiche furono riprese nell’ondata di persecuzioni che si abbatté sulla Compagnia nel 1848. Partì dal Regno di Sardegna. I religiosi a fatica riuscivano a sfuggire alla furia dei più scalmanati. Il gesuita portoghese padre Jourdan venne impiccato in piazza San Domenico a Genova. Con la legge del 21 luglio 1848 e il successivo decreto del 25 agosto, lo Stato sabaudo decretava l’espulsione di quanti si rifiutavano di uscire dall’ordine.
Dopo le leggi liberticide, i religiosi superstiti si trovarono ridotti in piccole comunità di due o tre persone, quasi clandestine. E al grido di «Viva l’Italia, viva Gioberti, morte ai traditori» e «Fuori i gesuiti, morte ai gesuiti», la persecuzione si estese ovunque. A Napoli, nel regno borbonico, furono costretti a partire a centinaia, dopo l’intimidazione sul portone della chiesa del Gesù Nuovo: «O fuori o sangue». E così nel Lombardo-Veneto e nello Stato pontificio: a Camerino alcuni esagitati tentarono di gettare i religiosi dalle finestre del collegio; a Fano invece i consacrati furono costretti a correre sui monti inseguiti da facinorosi armati. Pio IX stesso fece sapere al preposito generale padre Jan Roothaan di non essere in grado di assicurare l’incolumità dei suoi religiosi e pertanto li pregava di lasciare gli Stati pontifici. Presero la via dell’esilio molti padri luminari del sapere: come l’astronomo Angelo Secchi, pioniere dell’astrofisica per lo studio delle comete, che riuscì però a mettersi in salvo.
Nell’annus horribilis per la Compagnia, molti suoi confratelli videro ben altre stelle.

Antonio Giulano
Avvenire, 20/10/2007, p. 29

1848, caccia al gesuita

Successe un Quarantotto
Pestati, costretti a scappare con quattro stracci addosso, ricoperti di ingiurie. Fu una vera «caccia al gesuita» quella scatenatasi nel fatidico 1848.
«L’astio contro la Compagnia di Gesù fu quello più forte manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia». Ne è convinto Giuseppe Brienza nel saggio I gesuiti e la rivoluzione nel 1848, un agile e documentato volumetto che rispolvera una pagina poco conosciuta della nostra storia pre-unitaria. Sin dall’arrivo di Ignazio di Loyola a Roma nel 1538 i gesuiti – ottenuta l’approvazione pontificia dell’ordine – si distinsero da subito come una «squadra d’assalto» al servizio della Santa Sede. Con quel quarto voto aggiunto di servire in modo speciale il Papa, la Compagnia durante il Risorgimento finì nel mirino di quelle forze rivoluzionarie che per ottenere l’unificazione volevano cancellare lo Stato pontificio e la tradizione cattolica della Penisola. Già nel 1773 una campagna calunniosa di alcune potenze e diplomazie liberali, protestanti e filo-massoniche, aveva indotto papa Clemente XIV a sopprimere l’ordine. Una decisione che il Pontefice si rimprovererà poi per tutta la vita.
Tuttavia la Compagnia, rinata nel 1814, conobbe una fioritura inarrestabile fino al 1848. Ma la massoneria, che dall’inizio dell’Ottocento aveva mostrato sempre più aperta ostilità verso il cattolicesimo, alimentò in buona parte dei circoli borghesi e intellettuali europei l’immagine dei gesuiti come figure oscure, chiuse, avide, ambigue e senza patria. L’ordine veniva altresì visto come il principale sostegno al rinnovato legame tra trono e altare sancito dalla Restaurazione. E a dar man forte all’antigesuitismo del XIX secolo ci pensò perfino Vincenzo Gioberti. Già, proprio lui, che nell’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) si era fatto promotore del neoguelfismo, auspicando per l’Italia una confederazione di Stati presieduta dal Papa. Il suo apporto alla persecuzione anti-gesuita in Italia viene definito «decisivo» nel libro
Di certo l’abate torinese non fu tenero nei confronti della Compagnia. Prima con i Prolegomeni al Primato (1845) e poi con i cinque prolissi volumi de Il gesuita moderno (1847), Gioberti bollò il gesuitismo come «uno dei principali ostacoli al riscatto d’Italia». Più tardi l’abate chiarirà che attaccava nei gesuiti quanti si opponevano alla sua concezione eterodossa del cristianesimo, per qualcuno molto vicina al panteismo. Sta di fatto che le sue critiche furono riprese nell’ondata di persecuzioni che si abbatté sulla Compagnia nel 1848. Partì dal Regno di Sardegna. I religiosi a fatica riuscivano a sfuggire alla furia dei più scalmanati. Il gesuita portoghese padre Jourdan venne impiccato in piazza San Domenico a Genova. Con la legge del 21 luglio 1848 e il successivo decreto del 25 agosto, lo Stato sabaudo decretava l’espulsione di quanti si rifiutavano di uscire dall’ordine.
Dopo le leggi liberticide, i religiosi superstiti si trovarono ridotti in piccole comunità di due o tre persone, quasi clandestine. E al grido di «Viva l’Italia, viva Gioberti, morte ai traditori» e «Fuori i gesuiti, morte ai gesuiti», la persecuzione si estese ovunque. A Napoli, nel regno borbonico, furono costretti a partire a centinaia, dopo l’intimidazione sul portone della chiesa del Gesù Nuovo: «O fuori o sangue». E così nel Lombardo-Veneto e nello Stato pontificio: a Camerino alcuni esagitati tentarono di gettare i religiosi dalle finestre del collegio; a Fano invece i consacrati furono costretti a correre sui monti inseguiti da facinorosi armati. Pio IX stesso fece sapere al preposito generale padre Jan Roothaan di non essere in grado di assicurare l’incolumità dei suoi religiosi e pertanto li pregava di lasciare gli Stati pontifici. Presero la via dell’esilio molti padri luminari del sapere: come l’astronomo Angelo Secchi, pioniere dell’astrofisica per lo studio delle comete, che riuscì però a mettersi in salvo.
Nell’annus horribilis per la Compagnia, molti suoi confratelli videro ben altre stelle.

Antonio Giulano
Avvenire, 20/10/2007, p. 29