martedì 15 luglio 2008

RECENSIONE di Bruno Pampaloni (Il Foglio, 15/07/2008)

Nella sola Roma più di mille ecclesiastici e tredicimila secolari fuggirono dalla città, mentre altri preti venivano massacrati, molti conventi furono occupati e decine di chiese profanate, senza contare i beni ecclesiastici espropriati dal governo repubblicano. I moti antireligiosi del 1848 videro in tutta Italia una tragica "caccia al clericale" di cui i gesuiti furono le vittime principali.
"L'astio verso la Compagnia di Gesù fu più forte di quello manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia, ed ebbe inizio proprio nel sabaudo Regno di Sardegna" scrive Brienza.
Nel febbraio di quell'anno, la Compagnia fu obbligata a fuggire da Sassari e da Cagliari. Nel marzo fu la volta di Genova, dove gruppi di rivoluzionari assalirono la casa dei gesuiti, devastarono il collegio di Palazzo Doria Tursi e saccheggiarono la chiesa di Sant'Ambrogio, tenuta dalla Compagnia. Episodi simili accaddero a Torino, Chambéry, Novara, Aosta, Chieri, Voghera, raggiunsero il Lombardo Veneto e toccarono il meridione e il centro dell'Italia: Napoli, Sorrento, Salerno e, appunto, lo stato Pontificio, dove Pio IX — incapace di garantirne l'incolumità — invitò la Compagnia ad abbandonare in fretta e furia il territorio papalino. I professori del Collegio Romano emigrarono così in Belgio, in Inghilterra, perfino negli Stati Uniti. In Sicilia la situazione apparve altrettanto critica.
A soffiare sul fuoco ci aveva pensato l'opuscolo "Della nazionalità" (1846) del gesuita padre Luigi Taparelli d'Azeglio (1793-1862). In quello scritto l'autore sosteneva come il principio di nazionalità non s'accompagnasse necessariamente con quello di indipendenza, "sebbene ragioni di politica utilità" avrebbero sempre evitato che una nazione fosse "ligia a una potenza stranera". Non era certo nelle intenzioni di Taparelli affermare che un popolo soggetto non dovesse aspirare all'indipendenza. Egli però vedeva nel diritto e non nella nazionalità il moto primo nella vita dei popoli. Ma tanto bastò affinché il gesuita e i suoi confratelli fossero accusati di "ipocrisia per essersi presentati come patrioti non essendolo" e che Vincenzo Gioberti si scagliasse contro di loro con il pamphlet "Il gesuita moderno" (1847).
Il pensatore neoguelfo, d'altra parte, già da tempo era convinto che i gesuiti fossero "uno dei principali ostacoli al riscatto d'Italia".
In questa temperie culturale, dunque, anche in Sicilia la persecuzione prese di mira i gesuiti. Lo stesso Taparelli, dopo essere stato arrestato a Palermo (aprile 1849), si rifugiò a Marsiglia. Eppure, proprio lui e il confratello Giuseppe Romano avevano appoggiato la rivoluzione siciliana, iniziata nel gennaio del 1848. Nel nuovo regime costituzionale, infatti, essi avevano colto "un sistema migliore del vecchio regime regalistico-borbonico". Non solo. I due gesuiti avevano vagheggiato una libertà siciliana modellata su quella degli Stati Uniti, che contemplasse la pratica di tutte le religioni e senza il prevalere di una sulle altre. Fu loro fatale l'ambizione di sottrarre la rivoluzione alla logica del liberalismo nazionalistico per ricondurla sui binari costituzionali e del diritto naturale. Se, dunque, i fatti siciliani illustrano molto bene lo scontro (non solo) intellettuale dell'epoca, va tuttavia rilevato come le maggiori "attenzioni" dei leader rivoluzionari fossero indirizzate alla Roma di Pio IX che, nel "processo di costruzione di un'Italia laicista e risorgimentale", costituiva il maggior ostacolo da abbattere. Nel tentativo di edificare una società senza religione soprannaturale né Chiesa, le squadre d'assalto della Compagnia, con la loro "strutturazione centralistica, militaresca e rigorosa" e specialmente con "il quarto voto di servire in modo speciale il Papa" rappresentavano davvero l'avversario più temibile.

Bruno Pampaloni

© Il Foglio, martedì 15 luglio 2008, p. 3


Giuseppe Brienza
I GESUITI E LA RIVOLUZIONEITALIANA NEL 1848
Solfanelli, 64 pp. euro 7

RECENSIONE di Bruno Pampaloni (Il Foglio, 15/07/2008)

Nella sola Roma più di mille ecclesiastici e tredicimila secolari fuggirono dalla città, mentre altri preti venivano massacrati, molti conventi furono occupati e decine di chiese profanate, senza contare i beni ecclesiastici espropriati dal governo repubblicano. I moti antireligiosi del 1848 videro in tutta Italia una tragica "caccia al clericale" di cui i gesuiti furono le vittime principali.
"L'astio verso la Compagnia di Gesù fu più forte di quello manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia, ed ebbe inizio proprio nel sabaudo Regno di Sardegna" scrive Brienza.
Nel febbraio di quell'anno, la Compagnia fu obbligata a fuggire da Sassari e da Cagliari. Nel marzo fu la volta di Genova, dove gruppi di rivoluzionari assalirono la casa dei gesuiti, devastarono il collegio di Palazzo Doria Tursi e saccheggiarono la chiesa di Sant'Ambrogio, tenuta dalla Compagnia. Episodi simili accaddero a Torino, Chambéry, Novara, Aosta, Chieri, Voghera, raggiunsero il Lombardo Veneto e toccarono il meridione e il centro dell'Italia: Napoli, Sorrento, Salerno e, appunto, lo stato Pontificio, dove Pio IX — incapace di garantirne l'incolumità — invitò la Compagnia ad abbandonare in fretta e furia il territorio papalino. I professori del Collegio Romano emigrarono così in Belgio, in Inghilterra, perfino negli Stati Uniti. In Sicilia la situazione apparve altrettanto critica.
A soffiare sul fuoco ci aveva pensato l'opuscolo "Della nazionalità" (1846) del gesuita padre Luigi Taparelli d'Azeglio (1793-1862). In quello scritto l'autore sosteneva come il principio di nazionalità non s'accompagnasse necessariamente con quello di indipendenza, "sebbene ragioni di politica utilità" avrebbero sempre evitato che una nazione fosse "ligia a una potenza stranera". Non era certo nelle intenzioni di Taparelli affermare che un popolo soggetto non dovesse aspirare all'indipendenza. Egli però vedeva nel diritto e non nella nazionalità il moto primo nella vita dei popoli. Ma tanto bastò affinché il gesuita e i suoi confratelli fossero accusati di "ipocrisia per essersi presentati come patrioti non essendolo" e che Vincenzo Gioberti si scagliasse contro di loro con il pamphlet "Il gesuita moderno" (1847).
Il pensatore neoguelfo, d'altra parte, già da tempo era convinto che i gesuiti fossero "uno dei principali ostacoli al riscatto d'Italia".
In questa temperie culturale, dunque, anche in Sicilia la persecuzione prese di mira i gesuiti. Lo stesso Taparelli, dopo essere stato arrestato a Palermo (aprile 1849), si rifugiò a Marsiglia. Eppure, proprio lui e il confratello Giuseppe Romano avevano appoggiato la rivoluzione siciliana, iniziata nel gennaio del 1848. Nel nuovo regime costituzionale, infatti, essi avevano colto "un sistema migliore del vecchio regime regalistico-borbonico". Non solo. I due gesuiti avevano vagheggiato una libertà siciliana modellata su quella degli Stati Uniti, che contemplasse la pratica di tutte le religioni e senza il prevalere di una sulle altre. Fu loro fatale l'ambizione di sottrarre la rivoluzione alla logica del liberalismo nazionalistico per ricondurla sui binari costituzionali e del diritto naturale. Se, dunque, i fatti siciliani illustrano molto bene lo scontro (non solo) intellettuale dell'epoca, va tuttavia rilevato come le maggiori "attenzioni" dei leader rivoluzionari fossero indirizzate alla Roma di Pio IX che, nel "processo di costruzione di un'Italia laicista e risorgimentale", costituiva il maggior ostacolo da abbattere. Nel tentativo di edificare una società senza religione soprannaturale né Chiesa, le squadre d'assalto della Compagnia, con la loro "strutturazione centralistica, militaresca e rigorosa" e specialmente con "il quarto voto di servire in modo speciale il Papa" rappresentavano davvero l'avversario più temibile.

Bruno Pampaloni

© Il Foglio, martedì 15 luglio 2008, p. 3


Giuseppe Brienza
I GESUITI E LA RIVOLUZIONE ITALIANA NEL 1848
Solfanelli, 64 pp. euro 7