venerdì 9 maggio 2008

1848, caccia al gesuita

Successe un Quarantotto
Pestati, costretti a scappare con quattro stracci addosso, ricoperti di ingiurie. Fu una vera «caccia al gesuita» quella scatenatasi nel fatidico 1848.
«L’astio contro la Compagnia di Gesù fu quello più forte manifestato durante tutto il corso del Risorgimento contro ogni altro istituto religioso presente in Italia». Ne è convinto Giuseppe Brienza nel saggio I gesuiti e la rivoluzione nel 1848, un agile e documentato volumetto che rispolvera una pagina poco conosciuta della nostra storia pre-unitaria. Sin dall’arrivo di Ignazio di Loyola a Roma nel 1538 i gesuiti – ottenuta l’approvazione pontificia dell’ordine – si distinsero da subito come una «squadra d’assalto» al servizio della Santa Sede. Con quel quarto voto aggiunto di servire in modo speciale il Papa, la Compagnia durante il Risorgimento finì nel mirino di quelle forze rivoluzionarie che per ottenere l’unificazione volevano cancellare lo Stato pontificio e la tradizione cattolica della Penisola. Già nel 1773 una campagna calunniosa di alcune potenze e diplomazie liberali, protestanti e filo-massoniche, aveva indotto papa Clemente XIV a sopprimere l’ordine. Una decisione che il Pontefice si rimprovererà poi per tutta la vita.
Tuttavia la Compagnia, rinata nel 1814, conobbe una fioritura inarrestabile fino al 1848. Ma la massoneria, che dall’inizio dell’Ottocento aveva mostrato sempre più aperta ostilità verso il cattolicesimo, alimentò in buona parte dei circoli borghesi e intellettuali europei l’immagine dei gesuiti come figure oscure, chiuse, avide, ambigue e senza patria. L’ordine veniva altresì visto come il principale sostegno al rinnovato legame tra trono e altare sancito dalla Restaurazione. E a dar man forte all’antigesuitismo del XIX secolo ci pensò perfino Vincenzo Gioberti. Già, proprio lui, che nell’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) si era fatto promotore del neoguelfismo, auspicando per l’Italia una confederazione di Stati presieduta dal Papa. Il suo apporto alla persecuzione anti-gesuita in Italia viene definito «decisivo» nel libro
Di certo l’abate torinese non fu tenero nei confronti della Compagnia. Prima con i Prolegomeni al Primato (1845) e poi con i cinque prolissi volumi de Il gesuita moderno (1847), Gioberti bollò il gesuitismo come «uno dei principali ostacoli al riscatto d’Italia». Più tardi l’abate chiarirà che attaccava nei gesuiti quanti si opponevano alla sua concezione eterodossa del cristianesimo, per qualcuno molto vicina al panteismo. Sta di fatto che le sue critiche furono riprese nell’ondata di persecuzioni che si abbatté sulla Compagnia nel 1848. Partì dal Regno di Sardegna. I religiosi a fatica riuscivano a sfuggire alla furia dei più scalmanati. Il gesuita portoghese padre Jourdan venne impiccato in piazza San Domenico a Genova. Con la legge del 21 luglio 1848 e il successivo decreto del 25 agosto, lo Stato sabaudo decretava l’espulsione di quanti si rifiutavano di uscire dall’ordine.
Dopo le leggi liberticide, i religiosi superstiti si trovarono ridotti in piccole comunità di due o tre persone, quasi clandestine. E al grido di «Viva l’Italia, viva Gioberti, morte ai traditori» e «Fuori i gesuiti, morte ai gesuiti», la persecuzione si estese ovunque. A Napoli, nel regno borbonico, furono costretti a partire a centinaia, dopo l’intimidazione sul portone della chiesa del Gesù Nuovo: «O fuori o sangue». E così nel Lombardo-Veneto e nello Stato pontificio: a Camerino alcuni esagitati tentarono di gettare i religiosi dalle finestre del collegio; a Fano invece i consacrati furono costretti a correre sui monti inseguiti da facinorosi armati. Pio IX stesso fece sapere al preposito generale padre Jan Roothaan di non essere in grado di assicurare l’incolumità dei suoi religiosi e pertanto li pregava di lasciare gli Stati pontifici. Presero la via dell’esilio molti padri luminari del sapere: come l’astronomo Angelo Secchi, pioniere dell’astrofisica per lo studio delle comete, che riuscì però a mettersi in salvo.
Nell’annus horribilis per la Compagnia, molti suoi confratelli videro ben altre stelle.

Antonio Giulano
Avvenire, 20/10/2007, p. 29

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